Evelyne Nicod

BIGLIETTO DI SOLA ANDATA

però in prima classe



MILANO

GATTERIA

MMXX

BIGLIETTO DI SOLA ANDATA

però in prima classe

di

EVELYNE NICOD



a cura di


RODOLFO PARDI



Editore: Gatteria ® .www.gatteria.it

Edizione cartacea 1


Data pubblicazione: 25 aprile 2020


ISBN ISBN 9788887709933


Copyright: © Evelyne Nicod 2020


Diritti: tutti i diritti riservati. All rights reserved.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, del testo e delle illustrazioni.



INDICE


Frontespizio

Prefazione

Introduzione

    Giulia

    Capitolo 1. Giulia

    Capitolo 2. Arrivo in Francia

    Capitolo 3. Charlotte

    Capitolo 4. Ragazza alla pari

    Capitolo 5. Il lavoro

    Capitolo 6. Edmond

    Capitolo 7. Milano

    Capitolo 8. Problemi famigliari

    Capitolo 9. Maledetta vecchiaia

    Capitolo 10. Eredità

    Capitolo 11. Carpe diem

    Maddalena

    Teresa e Paola

L'autore

Prefazione



Non ci sono confini alla realfinzione, i personaggi sono immaginari. Ho incontrato parecchie Giulie e Cedrini, in carne e ossa, Italiani e Francesi, che mi hanno dato la voglia di parlare dell'emigrazione del dopoguerra.


Desidero ringraziare il Professor Guido Pedrojetta, tutte le Giulie incontrate, Rodolfo per il suo prezioso aiuto per l'attività di impaginazione e la correzione delle bozze.


Milano, Maggio 2020 EVELYNE NICOD


Introduzione


Giulia nasce in Italia, la sua famiglia si trasferisce in Francia dopo la seconda guerra mondiale.

La bambina fa fatica a ambientarsi, preferisce il suo paese di origine, vuole studiare e diventare giornalista in Italia. Viaggia in tutto il mondo, torna a vivere a Milano da single, una vera solitaria per scelta.

La sua vita sentimentale è libera, niente legami. Però scopre a cinquanta anni che il suo corpo ha le sue esigenze e corre, anzi si precipita ai ripari.

Mai troppo tardi per volersi un po’ di bene. Arriva la vecchiaia, il confinamento, c’est la vie …


La vecchiaia risveglia i sogni nel cassetto delle protagoniste delle due ultime novelle. Una restaura libri e oggetti, le due altre coniugano le loro capacità, per creare un'attività di comunicazione lucrativa e gustativa.


Je suis un arbre .

Mon feuillage débonnaire

Abondant et généreux,

Attire toujours les amoureux

Mon parfum ensorcelant

Fait le délice des passants

Depuis un siècle les saisons

Ont renforcé ma conviction

Qu’être un tilleul est ma vocation


Evelyne Nicod


1




Giulia

La pandemia ci ha rintanati, un mese di confinamento, di notizie mortifere, di tragedie e di comunicazione a tutto spiano, con amici e non. Si respira ancora un’aria bizzarra, di eccitazione con un misto di angoscia e di irrazionalità.

Mi chiamo Giulia, sono una giornalista quasi a riposo, ho 82 anni, me li sento tutti nelle gambe, nella memoria, ma non posso lamentarmi alla luce delle ultime notizie, mi vergognerei.

Vivo in un appartamento di 100 m quadrati nel centro di una città grande, in un condominio piccolo con giardino piantumato. Una balconata gira intorno all’edificio, usufruisco così di uno spazio esterno favoloso perché ogni locale si apre sull’esterno. Non potendo passeggiare sul marciapiede, faccio un po’ di movimento. Raccomandato in TV ogni ora: muoversi (ginnastica), avanti, indietro, come d’ordinanza, sul balcone.

Come tanti miei concittadini, occupo la giornata cercando informazioni dal mondo grazie ad Internet, con il tablet. La depressione cammina sorniona ovunque, non ne posso più. Ho passato delle ore al telefono o peggio ancora su WhatsApp o Skype dove ci siamo ritrovati con gli amici vecchi, decrepiti. Basta.

Aprendo un cartone pieno di carte, fotografie di famiglia, è riemersa in qualche ora la vita di decine di persone, la mia vita. Ho letto le lettere delle nonne, della famiglia completa. Cresime, matrimoni, funerali.

Mia madre si chiamava Isolina Rossi e mio padre Giorgio Cedrini, nati in Piemonte a Domodossola da genitori contadini della Valdivedro per la linea materna e della valle Antigorio per quella di mio padre.

Isolina nacque nel maggio del 1914, mio padre nel giugno del 1912. I miei nonni trovarono lavoro sul cantiere del Sempione, le donne andarono a servizio, una nella famiglia di un notaio e l’altra commessa in un negozio di piazza Mercato. Isolina, figlia unica, fu allevata da una coppia poverissima, grandi lavoratori che desideravano una cosa sola, che la loro figlia andasse a scuola e studiasse, per riscattare i troppi anni di privazioni. Mio nonno Rossi morì a 47 anni, schiacciato da una scarica di sassi sul cantiere.

Il nonno Cedrini si sposò a 45 anni, dopo avere messo da parte un po’ di soldi, guadagnati da muratore al traforo. La sposina aveva vent’anni, ebbe il primogenito Giorgio nove mesi dopo il matrimonio. Fecero sei figli a cadenza regolare di uno all’anno. La nonna morì dando alla luce l’ultimo bambino. Il nonno risposò la sorella di mia nonna che allevo con molta cura i sei figli del precedente matrimonio e i tre suoi.

Il nonno morì a 93 anni, e la seconda moglie a 91. Giorgio studiava con diligenza e lavorava d’estate sul Sempione. Si diplomò geometra, fiero della promozione e del titolo.

Isolina era una bambina sveglia, molto carina, con bellissimi occhioni azzurri. Amava la scuola, aiutava anche lei a guadagnare qualche soldo facendo la bambinaia. Scelse di fare le magistrali.

A 20 anni divenne maestra delle scuole elementari, ebbe il suo primo impatto con la realtà dell’insegnamento in un paesino rurale in valle Antigorio. I suoi alunni, figli di allevatori di bestiame e agricoltori, aiutavano a portare gli animali al pascolo e a mungere il latte, prima di sedersi sui banchi dell’aula. Non c’era chiasso in classe, sapeva farsi rispettare, ascoltavano con attenzione per un’ora, poi piano piano, si agitavano, ridevano. Imparò in fretta ad organizzarsi, aveva l’abitudine dei bambini piccoli, quando faceva la bambinaia, con il suo sorriso e la voce chiara, la classe di 12 scolari funzionava relativamente bene.

Incontrò Giorgio all’uscita della scuola, era ospite di uno zio in una baita di altura. Isolina piaceva sia ai maschi che alle donne del paesino, quasi tutti parenti, tra cugini e famiglie numerose. Presero a passeggiare insieme, una coppia bene assortita, Giorgio era un bellissimo ragazzo, Isolina una fresca biondina sorridente, fatta bene, seno, gambe, sedere, tutto a dovere. La mamma d’Isolina seguiva da vicino l’evoluzione della storia d’amore.

Giorgio non era consapevole di essere così bello, lo erano anche tutti i suoi fratelli e sua sorella. Le ragazze di Domo lo guardavano, eccome, Isolina sapeva di avere un bel po’ di concorrenza, ma dopotutto, nemmeno lei era da buttare via.

La guardiana della sua virtù, mia nonna, aveva delle spie ovunque, e sapeva come e dove sua figlia amoreggiava. I ragazzi si fecero più furbi, Isolina fece l’amore con il suo Giorgio ogni volta che ne avevano la possibilità, a vent’anni la si trova sempre.

Io sono nata nel 38, non si sposarono subito, Giorgio partì, fece il militare, la guerra fu dichiarata in Africa, poi divenne partigiano nel 43, nascosto sulle montagne della Valdivedro.

Si ritrovarono nel 46, avevo sette anni, e mi chiedevo chi fosse questo intruso nella nostra vita. La guerra gli aveva tolto qualsiasi illusione politica. Si sposarono civilmente, feci da damigella, orgogliosa di esibirmi tra i miei genitori.

Giorgio discusse con la nonna e sua moglie del nostro futuro. Da ragazzo era andato come lavoratore stagionale nel Vallese in Svizzera per la raccolta delle fragole. Ne aveva un pessimo ricordo.

Fu deciso che sarebbe partito, da solo, in Francia nel Giura dove si erano già trasferiti due dei suoi fratelli, Erminio come perito elettrotecnico, Tersilio come idraulico.

Mia madre si spostò a Villadossola in una scuola appena rimessa in piedi, trovò un appartamentino per noi e la nonna. Papà partì, e le nostre lacrime per poco non fecero straripare il fiume Toce.

Non ho un brutto ricordo di questo periodo. Tre donne sole, uno stipendio e una pensioncina della nonna per vivere, mangiavamo, benché un po’ meno bene che in Antigorio, dove si coltivava tutto negli orti, ridevamo, c’era un andirivieni continuo. Isolina cantava sempre, accompagnava la radio. Mia nonna governava la casa, cucinava, stirava, mi adorava, meno severa di mia madre che mi sgridava sempre, mi voleva perfetta. Come mai due persone così belline fecero una bambina scialba come me? Il DNA è un grande birichino inspiegabile: non sono brutta, mia nonna mi diceva sempre che sembravo un fiorellino nascosto, mia madre un giglio delle nostre valli, arancione, e mio padre, un girasole, ma mi vedevo come una violetta sfiorita. E ridevamo, la vecchia Margherita abbracciava la piccola violetta. Mio padre chiamava ogni venerdì sera nel bar accanto, unico telefono nelle vicinanze. Mamma rideva sempre, io non sapevo cosa dire, non potevo soffrire queste chiamate.

Le nostre giornate si svolgevano sempre allo stesso modo: lavarsi bene il collo, non solo il musetto, prima colazione con un tazzone di latte sporcato di caffè d’orzo, due fette di pane con marmellata. Cappotto, sciarpa, cartella e scuola. Ritorno all’una per pranzo, tutte e tre attorno al tavolo tondo, con tovaglia di canapa a quadretti, piatti fondi, bicchieri, coltello e forchetta, una caraffa d’acqua, pasta con sugo, insalata, una mela. La nonna e mia madre bevevano il caffè appena uscito dalla grande caffettiera smaltata, che profumava tutta la casa.

Isolina lavava i piatti nel lavello vicino alla finestra, io li asciugavo con un strofinaccio ricavato da una vecchia tovaglia.

La nonna faceva un pisolino sul divano, mia madre rassettava la stanza, puliva il pavimento, apriva la finestra.

Eravamo pronte per sistemarci di nuovo sull’unico tavolo della casa. Mia madre correggeva i compiti, preparava la lezione, e io studiavo alla svelta per potere andare a giocare con le mie amichette giù nel cortile.

Mi ricordo benissimo come mi vestivano, la nonna, o mia madre: una canottiera intima girocollo, senza maniche, molto lunga, un maglioncino di lana, opera della Margherita accasciata, una gonnellona blu scuro, delle calze bianche, dimenticavo, le orrende mutande di cotone a coste che arrivavano sotto alle ascelle. Il cappottone blu scuro a sei bottoni, per l’inverno, un berretto fatto in casa bianco, con guantoni assortiti, stivaletti con suola di para. L’estate era più estrosa, mi piaceva molto un vestito di cotone a fiori con un colletto bianco, dei sandali rossi, dei calzini bianchi con fiocchetto.

Le mie amiche si chiamavano Cicci e Mimma, io ero Tina. Tutte e tre passavamo delle ore a saltare con la corda, lanciare la palla contro il muro, vicino al vetraio che aveva l’officina nel cortile e che ci urlava di piantarla di fare tanto baccano. La radio a pieno volume nel suo gabbiotto. Alle sette si tornava a casa, lavata delle mani, disinfezione delle ferite alle braccia e sbucciature delle ginocchia.

Si cenava con un minestrone ricco, ispessito di pane raffermo, formaggio e mela cotta.

La nonna diceva che una mela al giorno toglie il dottore di torno. Però ogni giorno era troppo, non si vedeva la fine del raccolto dello zio. Speravo che le formiche le mangiassero tutte l’anno seguente.

Nonna alle nove apriva il divano letto e spegneva la luce. Isolina mi coricava nel lettone della nostra camera dopo essere andate tutte e due in bagno sul pianerottolo. Leggeva fino a tardi, poi crollava esausta.

L’estate era la mia stagione preferita, perché andavamo nella baita casera dell’Alpe Veglia. Due mesi di gioco con i cani, a sorvegliare le mucche, aiutare a fare la cagliata, le pecore stavano per conto loro. La mamma non amava molto la campagna, e credo che anche la cognata le desse l’orticaria. La nonna rimaneva a Domo, aveva il cuore debole e non sopportava l’altitudine.

Nel settembre del 51, mio padre ci fece la sorpresa di venire a trovarci per fare ritorno a Domo. Mamma non sembrava felice, io nemmeno. Era ancor più bello del solito, vestito bene, e sorpresa, possedeva una Topolino nuova di zecca, rossa fuori nera dentro. Isolina faceva una faccia d’inizio tempesta. Risparmiava ogni lira che guadagnava, molto tirchia di natura. La generosità non le apparteneva, eredità della nonna, penso ora.

Mi piaceva molto la Topolino, ma non si doveva parlarne. Mio padre si mise ad urlare più delle due arpie, guardavo questi adulti fuori di testa: avevano proprio un pessimo carattere queste tre belve!

La cena della nonna fu alquanto silenziosa, dormii con lei sul divano. Si sentì qualche rumore proveniente dalla camera e al mattino trovammo “due tortorelle” a colazione. La pace del cuscino, sorrideva la nonna.

I miei genitori decisero di comune accordo che l’anno successivo la mamma avrebbe dato le dimissioni e che finalmente ci saremmo riuniti tutti e quattro per vivere a X, in Francia. Nonna non parlava, io piansi come un vitello. Che me ne fregava della France, non sapevo nemmeno dove fosse.

Papà prese una carta e mi spiegò in dettaglio com’era bella la città dove saremmo vissuti. Isolina iniziò subito i piani di preparazione: comprare un metodo per imparare il francese e un giradischi (spesa necessaria!).

Giorgio se ne tornò da dove veniva nella Topolino. La nostra vita riprese come al solito, unica variante un’ora di francese ogni sera in più, i verbi, tutti irregolari, l’ortografia, non se ne poteva più. 20 vocaboli al giorno da memorizzare. Mi veniva l’angoscia al pensiero di lasciare le mie amiche. Il padre di Cicci lavorava da due anni a Düsseldorf, in Germania, e mandava un sacco di soldi a casa, era piastrellista. Quello di Lina faceva il falegname, carpentiere a Sierre, nel Vallese. E sua madre era cameriera a Briga. Tutte e due le bambine vivevano con i nonni. Ridevano quando facevo la smorfiosa in un francese molto particolare.

Il dopo guerra nella valle si chiamava ricostruzione in Europa, significava anche immigrazione per tutti i tipi di edilizia e di altri settori produttivi. I nonni avevano lavorato allo scavo del tunnel del Sempione iniziato nel 1906 e terminato nel 1921. Tanti partirono più lontano, in Canada, in Australia, in America, soprattutto tra le due guerre.

Non potevo lamentarmi, La Francia non era così lontana dopo tutto, sarei potuta tornare quando la nostalgia mi avrebbe fatto perdere il sonno.

Nel gennaio 1952 la mia Margherita si spense del tutto accanto a me. Morì di infarto tenendomi per mano sul divano. Io persi la testa, per la prima volta ero colpita da questa legge disumana. Avevo 14 anni. Isolina non pianse, non una lacrima, dura come il granito, una rabbia fredda nel cuore. Non siamo mai riuscite a riscaldarci a vicenda, bloccate, sole, ognuna per sé.

L’anno scolastico finì per me e per mia madre. A luglio partimmo per X, una nuova vita ci aspettava. Fu la fine della mia fanciullezza, una nuova era si apriva, nuovo paese, nuovi orizzonti, nuove facce, abitudini. Molte novità all'orizzonte, magari anche troppe.